Sigmund Freud sosteneva che lo sviluppo umano prendesse piede dal progressivo abbandono del narcisismo primario (Io basto a me stesso), una sorta di dimensione uroborica e solipsistica dell'appagamento.
Poiché tale atteggiamento si rivela insoddisfacente (il neonato non è in grado di soddisfare il suo appetito da solo) il crescente senso di insoddisfazione che consegue all'incapacità del neonato di provvedere ai suoi bisogni determina poi la necessità di abbandonare la condizione originaria di autonomia, e costringe il piccolo a cercare nel mondo esterno qualcuno in grado di fornirgli l'appagamento. Questo senso di inferiorità (per usare un termine Adleriano) sarebbe la base, secondo Freud, dell'interdipendenza e dello strutturarsi di legami anaclitici tra esseri umani (e tra mammiferi tutti). Secondo ricercatori più prossimi a noi, invece, la spinta alla relazione è comunque un bisogno primario innato. In ogni caso, sia esso un bisogno primario o un'acquisizione sofferta, come riteneva Freud, il legame di un neonato con i suoi caregiver è essenziale per soddisfare le sue esigenze fisiche, e quelle emotive. Nel modello Freudiano del 1920 l'Eros fu esplicitamente svincolato dalla dimensione sessuale, per essere invece rivisitato quale coacervo di pulsioni, volte non tanto a soddisfare gli istinti riproduttivi, ma a garantire la sopravvivenza dell'individuo e della specie. In termini neurologici si parlerebbe dei circuiti del rinforzo al comportamento, o rilascio di dopamina, come gratificazione delle attività funzionali alla sopravvivenza. Mangiare, dormire, vezzeggiarsi, coccolarsi sono bisogni primari della natura umana, e in quanto tali vengono permeati da meccanismi di gratificazione neurotrasmettitoriali atti a garantire il rinforzo della risposta che ne garantisce l'appagamento. Assodato dunque che l'Eros, almeno per Freud, non significa sesso, ma appagamento degli istinti vitali, veniamo alla questione del bacio. Freud sostenne che il bacio è una forma di fissazione libidica alla fase orale, cioè alla fase in cui la sopravvivenza del neonato avviene tramite la sola suzione del seno. In virtù di quanto detto prima, al fine di garantire la reiterazione del comportamento utile, in questo caso attaccarsi al seno e succhiare il latte, tale meccanismo è stato adattivamente rinforzato dalle specie mammifere in modo da generare piacere, cosa che determina l'erotizzazione secondaria della bocca e delle attività a essa associate. Nelle specie animali, nei mammiferi, come in certe etnie primitive, è stato osservato come nel repertorio comportamentale delle cure parentali sia ricorrente il bacio labiale. Secondo l'etologia tale fenomeno sarebbe derivato proprio dalla nota pratica di offrire ai cuccioli il cibo masticato o predigerito da bocca a bocca, da un genitore a un neonato, per consentire la nutrizione a chi incapace di procurarsela o masticarla a dovere. "Il bacio labiale e linguale dell'uomo sono certo derivati da operazioni alimentari: la nutrizione bocca a bocca viene praticata in culture molto diverse". p.170. Eibl-Eibesfeldt, I; Adelphi.1971; e ancora: "L'alimentazione bocca a bocca la osserviamo anche presso gli antropomorfi (gorilla, scimpanzè, orango), e proprio, in generale, come operazione inerente alla cura della prole." p.171, ivi. Se la relazione parentale trae nel sostentamento del piccolo il suo primo fondamento, ne consegue che l'offerta del cibo è uno dei modi principali di manifestare amore e premura verso il neonato. La reiterazione dei comportamenti che esprimono una forma ritualizzata di offerta del cibo consentono dunque di comunicare al piccolo la disponibilità alle cure, all'attenzione, e sono dunque funzionali a rafforzare il legame parentale e la percezione di una rapporto prossimale sano, solerte, attento, sufficientemente buono. Non vi è dunque perversione sessuale nel bacio tra genitori e figli, poiché, implicitamente, si sta solamente reiterando un comportamento rituale e filogenetico di cure parentali tramite il quale si comunica al piccolo in una modalità preverbale e corporea: "Io sono qui per sfamarti, io tengo a te" Domandiamoci piuttosto che direzione ha preso la civiltà umana se questi comportamenti amorevoli, benché arcaici, generano in molti così tanta diffidenza. Danilo Rizzi
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Il periodo di quarantena domiciliare dal quale proveniamo ha messo a dura prova l’armonia psichica, oltre che la forma fisica di molti. Che una mente sana dipenda da un corpo sano è cosa proverbialmente nota, ma cerchiamo di capire il motivo di ciò. Il corpo è punto d’origine di ogni attività cerebrale e quindi della maggior parte dei processi cognitivi che ne scaturiscono.
Senza il corpo non sarebbe possibile [...] CONTINUA A LEGGERE SUL SITO DI NOVELLA 2000 Se avete avuto la fortuna di assistere alla crescita di un bambino, vi sarà capitato di osservare come nel suo sviluppo, le paure che costellano la vita di adulto insorgano in una forma molto elementare già nella prima fanciullezza. Gli elementi fobici della psiche di un bimbo, fatta eccezione per le angosce primordiali della prima infanzia (la disgregazione, la depersonalizzazione, la caduta nel vuoto, ecc.) si dimostrano presto molto dettagliate e ben congegniate. Generalmente la fonte di queste paure sono figure antropomorfe dalle caratteristiche anatomiche mostruose, marcatamente minacciose, appositamente designate per assolvere al loro intento malevolo: arrecare danno fisico o sottrarre il bimbo al genitore. Di caso in caso la figura può assumere un nome, una connotazione, o una storia diversa, tanto da essere assolutamente personale, esclusivo, e costituendosi come il "proprio mostro", oppure può ricalcare le forme dei beniamini della cultura cinematografica horror collettivamente condivise. L'universalità della sua presenza nelle fantasie infantili è indice di una precisa esigenza psichica e ci pone alcuni interrogativi. Sorvoliamo dunque sulle mutevoli forme di queste immagini angoscianti, sulle quali potrebbe essere illuminante una revisione della letteratura su folklore, racconti, miti e leggende. Soffermiamoci invece sulla dinamica e sulle qualità di questa angosciante figura di fantasia.Queste figure sono infatti caratterizzate da una qualità molto affascinante, e cioè la persistenza della minaccia. Quando un bimbo viene posto dinanzi a un elemento perturbante, ad esempio la minaccia di un’iniezione, o se cade maldestramente ferendosi, costui prova un senso di intensa paura che dura esattamente quanto il protrarsi della minaccia, o del dolore, o fino a che non sopraggiunga qualcuno a consolarlo. Nel caso invece della fantasia inconscia fanciullesca, la minacciosità del mostro sembra perdurare oltre ogni ragionevole tempo, come denotano il pelo ritto sulla schiena, lo sguardo vigile sul fondo del corridoio oscuro, o sotto il materasso, tanto da apparire slegata da qualsivoglia stimolo esterno, e incongrua con ogni plausibile irruzione di pensieri e ricordi spaventosi. Una stanza in penombra, una statua bizzarra su di un comodino, possono divenire la medesima dimora del mostro o una sua raffigurazione, ed esercitare un effetto angosciante duraturo nel tempo. Talvolta alcuni di questi spauracchi sopravvivono per stagioni nelle angosce del bambino, addirittura decenni. Si può arrivare a dire che fino al raggiungimento della piena adolescenza queste immagini terrorizzanti continuino a esercitare un sinistro potere e abitare la fantasia del bimbo. Vi è dunque una notevole differenza nella complessità del mondo di fantasia del bambino dei primi anni, che dipende in larga parte dalle reazioni somatiche e che dalla percezione di uno stimolo reale presagisce un dolore e ne prova paura, alla strutturazione di un'immagine interiore minacciosa che persiste nel tempo e che si arricchisce di caratteristiche, poteri, vicende, o addirittura un nome proprio, e che vive indipendentemente dagli episodi del mondo esterno, come accade invece nella seconda infanzia. La psicoanalisi interpreta tradizionalmente l'oggetto fobico come simulacro di aspetti rimossi/scissi della personalità, e quindi ripone in essi una funzione equilibrante nel bilancio del giudizio di sè, sollevando l’individuo dalla colpa di essere cattivo. Mi domando dunque se tale persistenza sia un fattore collaterale di una psiche in via di sviluppo che dunque necessita di uno stipo perenne del rimosso, o se ci sia altro. A mio avviso il mostro non esiste solo come sgabuzzino fantastico della propria distruttività, il mostro ha una funzione ancora più nobile: ci rende migliori. E non perché proiettando su di lui le emozioni ostili noi veniamo purificati dal male, ma perché il rapporto con lui è per noi un fattore di crescita. Esso si pone come antagonista, rendendoci protagonisti eroici della nostra vita. Il mostro è il portatore di valori avversi, contrari a quelli su cui si fonda la nostra educazione, e rivendicare la propria contrapposta inclinazione, conferma la nostra volontà di voler incarnare un ideale etico. Schierandoci nella fazione avversa alle oscenità del mostro, noi esprimiamo la nostra adesione a un progetto pedagogico su noi stessi. Inoltre combattere il mostro ci costringe ad aguzzare l'ingegno alla ricerca di strumenti, ritrovati, armi, pozioni, oggetti magici, in grado di aumentare la nostra potenza fantastica. La lotta con il mostro è indubbiamente una difesa verso gli elementi persecutori della propria psiche, ma ripropone in piccolo l'epopea dell'avventura dell'eroe, cioè diviene il campo di battaglia di una sfida per la crescita che non può essere spiegata unicamente quale cantuccio difensivo dalla dimensione perturbante della psiche. Nelle avventure contro i propri mostri, nel gioco di fantasia che spesso i bambini inscenano con amici e genitori e in cui impersonano l'eroe, il bambino pone se stesso in una contrapposizione dialettica che è il motore del percorso di crescita individuale. Che fare allora contro il mostro? Rinnegarlo nella fantasia? Sforzarsi di accoglierlo dentro sé come parte rimossa? A mio avviso la cosa migliore è accettarlo come nostro avversario e giocare contro di lui questa innocua fantasia del conflitto. Art by John Kenn Mortenes @johnkennmortensen
"La piena maturità dell'individuo non è possibile in un sistema sociale immaturo e malato". Quando il pediatra inglese Donald Winnicott scrisse queste parole aveva in mente un idea di maturità ben precisa: maturo è l'individuo che riesce a far coesistere in modo efficace le tendenze distruttive e quelle amorose. Secondo questo autore non è possibile concepire uno sviluppo psichico sano escludendo dal corredo delle passioni umane quelle aggressive. É ovvio che queste passioni non possano essere lasciate libere in una relazione genitoriale premurosa, come neanche in una società moderna, ma in entrambi i contesti tali emozioni devono raggiungere una condizione di accogliente consapevolezza. L'accettazione dell'esistenza dell'istinto alla distruzione conduce infatti, secondo il pensiero di Winnicott e della corrente psicoanalitica Londinese, all'acquisizione del senso di colpa e del conseguente tentativo di riparazione al danno arrecato. Aggressività, Colpa, Riparazione, sono una triade di concetti che non gode di grande considerazione e che tende a essere diffusamente negata, come a dire che lo sporco va nascosto sotto il tappeto. Ciò accade contemporaneamente su più livelli: nella psiche del singolo, nel sistema familiare, nella società. Una società del pensiero positivo non può illudere l'uomo di potersi privare della dimensione "nera" del suo animo, ma ha l'obbligo di renderlo cosciente del proprio scomodo bagaglio animalesco e insegnargli a farne il miglior uso.
Il potere della psicoterapia è nella parola. Cosa vi sia di terapeutico in esso è un argomento che 1500 caratteri non possono soddisfare esaurientemente. Già in Genesi (2, 19-20) Adamo viene incaricato di dare un nome alle creature; questo passo viene tradizionalmente interpretato come la legittimazione del dominio dell'uomo sulle altre specie viventi. Nella Grecia classica gli schiavi perdevano ogni diritto, incluo il proprio nome, che veniva sostituito arbitrariamente dal padrone, mentre nella Roma imperiale il nome gentilizio veniva conservato anche una volta ottenuta la libertà. La comparsa di un linguaggio scritto presso le civiltà mesopotamiche è indicata come data di fine della preistoria. Sul piano clinico La capacità di parola è indice del corretto sviluppo psicofisico di un bambino mentre le alterazioni o la perdita della produzione e comprensione linguistica scritta o orale sono elementi diagnostici indiscussi di un ampio ventaglio nosografico.
Nella prospettiva psicoanalitica il dominio della coscienza corrisponde al dominio del "raccontabile". Tutto ciò che, a causa del forte valore emozionale, non riesce a trovare sfogo attraverso la parola diviene oggetto di dissociazione, quindi diviene un complesso inconscio. Riallacciare i ponti con il rimosso, accompagnare la coscienza verso i luoghi inesplorati della psiche rendendoli nominabili, dare loro un nome e raccontarli, ristabilire il dominio sull'inconscio, questo è il potere terapeutico della parola. Per i culti misterici della Grecia antica Eros era il dio primigenio, da lui tutto nasceva. Scorrono i millenni e questo assioma continua a sopravvivere sotto diverse forme. Si celebra oggi la festa degli innamorati e tramite loro si anima l'intera società: i romantici preparano una cena da sogno, i passionali si scambiano impazienti i loro baci, gli ispirati compongono poesie, gli anziani si abbracciano teneramente, i delusi piangono, i timidi si danno tormento. Tutti inebriati dal dio amore. Le conseguenze di questo sentimento sulle vicende umane sono talmente variegate che se dovessimo comprenderne la natura solo osservandone gli effetti sulla specie umana ne usciremmo terribilmente confusi. Qual è dunque la sua natura? Personalmente ritengo che la più azzeccata concezione di esso sia quella mitologica, secondo cui Eros è figlio di Mancanza e di Pienezza, Penia e Poros. Il mito suggerisce che Amore nasca dalla tensione che si crea tra due fattori antitetici, elementi di segno opposto e diverso potenziale. Amore quindi incarna il principio di compensazione che tende ad appianare gli eccessi e bilanciare gli opposti, riempie dunque la Mancanza e alleggerisce la Pienezza. Ecco che l'innamoramento diviene per gli uomini una difficile e complicata sfida: esso ci spinge sempre a confrontarci con il nostro contrario, trovare un nuovo equilibrio, fino al raggiungimento di una completezza. Ciò è motivo del variegato e imprevedibile affresco delle relazioni interpersonali.
A Natale siamo tutti più buoni? Nient'affatto. Anzi, a ben rifletterci siamo tutti più scontrosi, irritabili, distanti. E ciò accade non solo perché subiamo il burnout da acquisti, ma anche perché il più delle volte ospitare a cena certi antichi e generalmente distanti parenti, ricevere un messaggio di auguri inatteso da persone del passato, o non riceverne affatto, si rivela ogni anno una terribile tortura. Come se non bastasse l'armonia familiare della festa rischia di essere messa duramente alla prova dal proprio atteggiamento, e non vogliamo mica essere noi il guastafeste dell'anno con i suoi bronci e le sue paturnie, vero? E così deglutiamo, e tiriamo avanti, un altro anno. Non umiliamoci pensando di essere le uniche pecore nere, ciascuno custodisce il suo inferno, questa è la natura umana. E se invece di continuare a portare avanti la menzogna della bontà-uber-alles, almeno quest'anno, per queste feste, ci concedessimo la possibilità di riconoscere, perlomeno nella propria intimità, il diritto a nutrire sentimenti avversi o perché no, riconoscere in noi pensieri ed emozioni negative? So che non è facile perché ci è stato insegnato cosa è giusto pensare, dire, provare, e ci dimentichiamo della nostra componente oscura, quella composta dai sentimenti perversi, inaccettabili, malvagi, che, udite udite, fanno parte del repertorio di ciascuno di noi, persino del più candido. Non odiamoci per le nostre ombre, ma rispettiamoci per la nostra complicatezza.
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Danilo RizziPsicoterapeuta, scrittore Archivi
June 2022
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